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Difficoltà adolescenziali e della prima età adulta

Autolesionismo, perdita di interesse, aggressività, orientamento allo studio e al lavoro

Le più comuni problematiche adolescenziali e della prima età adulta che ho ascoltato riguardano, oltre che le relazioni amicali e famigliari di cui si parla in un’altra sezione, l’accettazione di sé e il proprio posto nel mondo. L’auto-accettazione rimanda ovviamente all’autostima, in particolare quella di base, una dimensione emotiva e affettiva verso se stessi che può assumere connotati anche estremamente negativi, fino al convincimento di non avere alcun potere sulla propria vita, di non poter aspirare a nulla anche perché tutto appare poco interessante, inutile, un film già visto. A cosa si riferiscono i giovani quando parlano di “un film già visto”? A ciò che vedono in giro, alla frustrazione che genitori e adulti in genere gli rimandano coi loro lavori non amati, con una vita routinaria fatta di scadenze e amori spenti. I giovani, non tutti ma molti e sin dall’adolescenza, sono spenti perché non intravedono alcun futuro luminoso, messi come sono (siamo) tra pandemie e crisi economiche, guerre e contratti a termine. C’è un grosso problema di perdita di interesse perché mancano gli obiettivi, le mete, i percorsi per arrivarci. È un fatto che, banalmente, si chiama orientamento allo studio e al lavoro, ma che preferisco definire orientamento alla vita. Sì, perché la vita è realizzazione di sé, un po’ come un bocciolo che vuol schiudersi a fiore o un cucciolo che vuol diventare grande, e se questa possibilità non è data o non è chiara, ecco esordire tutta una serie di possibilità che vanno dalla già citata apatia all’autolesionismo, dalla perdita di interesse all’aggressività verso se stessi o gli altri, o anche verso il mondo e la vita.

Realizzare se stessi non significa raggiungere una posizione di prestigio o una condizione economica invidiabile, ma sviluppare il proprio potenziale secondo i propri interessi e inclinazioni. In altri termini, è una questione di talento. Ma, si badi bene, non il talento così come lo intende l’uomo della strada (e purtroppo anche molti cosiddetti esperti), quello cioè della prestazione assoluta, dell’eccellenza, del grande risultato: il talento di cui hanno bisogno i giovani, anzi che i giovani devono imparare a riconoscere dentro sé, è legato a ciò che sono venuti a fare nel mondo, a quale potrà essere il proprio contributo, al modo in cui potranno “restituire il dono”. Sono discorsi meglio approfonditi nel mio libro sul Talento, basti qui ricordare che non si tratta tanto di un discorso religioso (quello della “restituzione del dono” è un concetto preso in prestito dalla famosa Parabola dei Talenti) quanto di uno squisitamente psicologico, di realizzazione umana, di senso e scopo, di significato della vita: se manca un me verso cui camminare, viene meno la motivazione a muovere anche solo un altro passo.

L’autolesionismo sembrerebbe entrarci poco con quanto detto, d’altronde questo comportamento, ormai assai diffuso soprattutto tra le adolescenti, accende l’immagine della ragazzina che si taglia di nascosto in bagno perché si sente grassa e brutta o magari perché domani farà in modo che le sue amiche le chiedano perché è tanto turbata. Ma la realtà, al solito, è più complessa. Definito come “alterazione deliberata e auto-inflitta della superficie corporea, senza alcuna intenzione suicida”, il comportamento autolesionista rimanda a una articolata serie di motivazioni che affonda le sue ragioni nella mancata accettazione di sé e, talvolta, al quadro psicopatologico tipico del Disturbo borderline di personalità. Come accennato, sono molte le giovanissime (anche i giovani, ma in forme diverse) che si autoferiscono, mirando tra le altre cose a un risveglio interiore che le riporti nel qui e ora, che le desti dal torpore in cui spesso cadono anche per mancanza di quel senso di cui si diceva prima. Annoiate dalla vita, bloccate in valori quali il selfie, la bellezza esteriore e la misteriosità che attira, finiscono col cadere dentro se stesse pur lanciando segnali all’esterno: l’autolesionismo, guarda caso, atto che nasce come privato e non confessabile, finisce sempre col divenire a conoscenza di tutti. C’è poi quell’intreccio di spinte di cui parlano gli studiosi e che riguardano il desiderio di lasciare l’indelebile traccia di un periodo difficile sul proprio corpo, di farsi attivi rispetto a quel che si vuol fare della propria vita, dell’espiare presunte colpe attraverso il dolore, piuttosto che del sentirsi finalmente parte di qualcosa, di un particolare tipo di persone che hanno il “coraggio” di fare una cosa del genere. Talvolta c’è emulazione, talaltra dei gravi problemi, ma restano fenomeni che meritano grande attenzione da parte degli adulti.

Qualche parola poi sull’aggressività giovanile. Rimandando alla apposita sezione ogni approfondimento sui cosiddetti “disturbi del comportamento”, mi preme qui dire che non sempre l’atteggiamento aggressivo nasconde un disturbo e nemmeno può essere derubricato a momento transitorio adolescenziale: talvolta si tratta di rabbia motivata, forse eccessiva e il cui oggetto non è del tutto chiaro ma comunque in grado di esprimere un disagio realmente esistente e la frustrazione per non riuscire a risolverlo. Ho per esempio conosciuto adolescenti che non approvavano nel modo più assoluto l’atteggiamento di certi loro professori a scuola, tronfi del ruolo e del “potere” accordatogli dalla istituzione, disinteressati a qualsivoglia implicazione educativa e umana della propria funzione, sostanzialmente stanchi di insegnare e di spendersi per un mestiere in cui non credevano più. Ebbene, proviamoci a mettere nei panni di questi ragazzi, obbligati (dalla legge, fino ai 16 anni, dalle famiglie, dopo) a frequentare un luogo in cui si impara poco, si cresce ancor meno e si odia sempre più: se accadesse a noi adulti in un luogo di lavoro, che faremmo? Mettiamoci nei panni di chi si sente umiliato dall’atteggiamento di certi docenti, trattato non come individuo ma come membro di un gregge indistinto che va governato, sottoposto a sanzioni anacronistiche come la “nota disciplinare di classe”: se nel nostro ufficio multassero tutti perché uno, non si sa chi, ha sbagliato, resteremmo a guardare? Ora, mi sembra che troppo spesso gli adolescenti siano trattati da ragazzini immaturi e lo si faccia talvolta a prescindere, cioè ancor prima di aver appurato se lo sono davvero. Per non parlare dei giovani adulti: che scelgano la via dell’università o quella del lavoro (molti, in realtà, finiscono per non scegliere nulla), si vengono a trovare in un mondo precostituito e preconfezionato dalle generazioni passate, un luogo sul quale c’è molto da dire. I giovani vengono ritenuti per lo più menefreghisti se non addirittura ignoranti rispetto a quel che succede attorno, ma basta fermarsi un poco a parlare con quelli che paiono più disinteressati per scoprire che in realtà sanno molte cose e ci hanno ragionato su. E non capiscono perché debba piacere loro un futuro fatto di percorsi obbligati, di università dove il quarto d’ora accademico è diventato mezz’ora e di professori che leggono le slides; non accettano di dover essere proprio loro la generazione che andrà in pensione a ottant’anni o forse mai, quella del debito pubblico assurdo che limiterà inevitabilmente la loro vita, e quella dei disastri ambientali ed eventi atmosferici estremi, dei migranti ambientali ed economici, di guerre che potrebbero essere ancora più devastanti dell’ultima, e della necessità di andare all’estero se si aspira a qualcosa di migliore, proprio come i loro trisavoli emigravano in America. Ebbene, se i giovani sanno queste cose e le subiscono perché non le hanno determinate loro, non può apparire strano vederli scivolare nella depressione e nel senso di impotenza, nella ricerca di altro (divertimento a qualsiasi costo, sostanze psicotrope, alcool) e in pratiche rischiose, oppure, semplicemente, nel diventare Neet, acronimo di Neither in Employment or in Education or Training, cioè nulla facenti e nulla vedenti (rispetto al proprio futuro). Rispetto a quest’ultima possibilità, sono tanti quelli che finiscono col fare scelte di vita miopi dettate dalla mancanza di fiducia, se non dalla paura: il lavoretto sotto casa “perché tanto la laurea non serve a niente”, l’iscrizione a ingegneria “perché dà di sicuro lavoro” o quella a economia perché “apre a molte strada e poi la fanno tutti” (come un tempo tutti si iscrivevano a giurisprudenza). Scelte degnissime, sia chiaro, ma in certi casi di ripiego perché non dettate da vero interesse, da passione, da una spinta non partorita nell’estate del dopo-maturità ma negli anni, come certi sogni coltivati sin da bambino. Ecco, questa è la situazione di molti adolescenti e giovani adulti e questo il lavoro psicoterapeutico da fare: riorientarli non tanto nelle scelte concrete di vita quanto nel senso e nello scopo della propria esistenza, alla ricerca di passioni ed entusiasmo che a quell’età dovrebbero essere esplosivi.

 

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