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Genitorialità e dinamiche famigliari

Intesa genitoriale, rapporti coi e tra i figli

Quello di avere una famiglia è un sogno che non è ancora tramontato, nonostante le statistiche raccontino di un continuo calo dei matrimoni e aumento delle separazioni. È che oggigiorno ci sono molti modi per metterne su una e non tutti passano per preti e sindaci, né tutte le famiglie si formalizzano e rispondono ai canoni tradizionali con cui è cresciuta la mia generazione e quelle precedenti.

Fatto sta che provo sempre bellissime emozioni quando il ragazzo o la ragazza seduta davanti a me mi parla della famiglia che sogna, dei figli, di come questo sia in fondo il progetto più grande che vorrebbe realizzare nella propria vita. Sono spesso appena ventenni, talvolta ancora adolescenti, eppure sembrano sapere perfettamente di cosa stanno parlando e quali saranno le difficoltà, prima fra tutte quella di trovare la persona giusta, qualcuno con cui condividere il sogno.

Tempi diversi, dunque, ma anche straordinariamente uguali, perché i desideri – anzi, il desiderio – è lo stesso: l’amore. Quello per un partner, quello per i figli. Tempi uguali perché simili restano le dinamiche relazionali, la necessità di una genitorialità che unisca e non divida, che renda preziose talune diversità impedendogli però di scavare fossati. E perché i figli, nati nella coppia o meno, figli di uno o dell’altra come spesso ormai succede, hanno gli stessi bisogni di base di quelli di 50 anni fa, o 100, o 1000: amore, appunto, ma anche protezione, ascolto, contenimento, accudimento, accompagnamento verso una vita che, per quanto divenuta complessa, mira sempre allo stesso bersaglio, la realizzazione di sé, di quel che siamo.

Sembra facile amare, ma non lo è. Molte storie che ho ascoltato parlano di amori invischiati, possessivi, stanchi, disillusi, idealizzati, distorti. Tutti i genitori dicono di voler bene ai propri figli e non ho motivo per pensare il contrario, ma occorre talvolta ristabilire dei confini, fissare un minimo di regole-base che sono gli stessi figli a chiedere, mostrare un sufficiente livello di coerenza e decisione, saper dire di no e anche di sì, saper aspettare o non perdere nemmeno un istante a seconda dei casi, lasciar trasparire le proprie preoccupazioni e difficoltà nella vita ma senza mai esagerare, perché per i figli noi adulti siamo la prova che ce la possono fare anche loro, e pur restando umani dobbiamo trasmettere loro fiducia e possibilità.

I figli sono belli, sono un miracolo; si potrebbe restare ore a guardarli mentre dormono, anche quando hanno vent’anni. Ma sono anche persone che, a misura che crescono, fanno crescere i problemi. Questo, perlomeno, è il punto di vista dei genitori; ma qual è quello dei figli? Per i figli il problema sono proprio i genitori e devo ammettere che spesso sono costretto a dar loro ragione. Tuttavia anche loro, i figli, qualche grattacapo lo danno e se ne rendono perfettamente conto. Anche troppo, talvolta, come quando dicono: “Non credo di essere il figlio che i miei avrebbero voluto…”. Una frase di quelle pesanti che, sulla bocca di un adolescente, va considerata attentamente. Non sempre è del tutto vera e credibile, ma anche se lo è in parte è già abbastanza per lavorarci su, sia col diretto interessato che coi genitori. Il figlio finisce in genere col fare un lungo elenco di cose che non stanno bene ai genitori, di rimproveri subìti e minacce, e di come in casa gli unici argomenti di conversazione (quando si può farlo, perché ai pasti la tv è sempre accesa) siano su “com’è andata a scuola” e “perché ti accontenti del 6 se puoi prendere 7?”. I genitori, dal canto loro, faticano talvolta a descrivere quel figlio: “Mi dica, che tipo è Mirco? Che carattere ha?”, chiedo a un certo punto. E il padre (in genere sono i padri quelli più in difficoltà davanti a domande del genere) cambia posizione sulla poltrona, dà il via al balletto del piede e sposta lo sguardo altrove come a cercare le parole. Infine: “Beh, che dire… è un bravo ragazzo, tutto sommato…”. “Sì, ma che qualità ha, le viene in mente qualche pregio? Perché finora mi ha parlato solo di quello che non va!” (e a lungo, intanto penso). Ma risposta non c’è: alcuni genitori, in realtà, non conoscono i propri figli. Gli vogliono bene, darebbero la vita per loro, ma ci parlano poco e per niente e non sanno descriverli. Tutti i pensieri sono stati dedicati a quello che non va, alla scuola, alle regole non rispettate, al non aiuto a casa, alle rispostacce e a quell’alzarsi da tavola appena finito, senza aspettare gli altri. Ma un figlio è solo questo?

C’è molto da lavorare, insomma, con le famiglie. Spesso si tratta di ripristinare il dialogo, di far dire a ciascuno non quello che pensa ma quello che sente, e sono momenti bellissimi in cui amo ancora di più la mia professione. Altre volte c’è troppa disfunzionalità, un ginepraio di rivendicazioni, non detti e risentimenti da cui non si viene fuori, e allora è bene lasciarlo andare quel figlio anche se ha voluto fare di testa sua, ma ormai è adulto e può farcela.

Poi ci sono i fratelli e le sorelle, le delicate dinamiche relazionali tra loro che talvolta li fanno apparire come estranei, al punto che l’uno non sa dell’altro nemmeno che scuola fa e i ricordi si fermano a quando erano ancora piccoli. Ma ci si lavora bene coi fratelli, specie quando si arriva al punto in cui si accorgono che la loro è una delle poche unioni che è per sempre, e che la loro storia andrà ben oltre quella coi genitori, se non altro per questioni anagrafiche.

Molto da fare con le famiglie, anche se non sempre si ottiene quel che si vorrebbe. Ma il terapeuta è lì per provarci fino all’ultimo, a cercare nei più reconditi angoli della psiche e del cuore dei suoi clienti risorse magari dimenticate, soluzioni forse ignorate. Spesso per paura, perché tornare a star bene insieme e a far funzionare le cose può incredibilmente fare paura.

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