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Dinamiche relazionali

Rapporti amicali, ritiro sociale, amore di coppia

Non sono l'unico terapeuta che ha notato che la maggior parte dei problemi portati in terapia sono, direttamente o indirettamente, di tipo relazionale. Tranne situazioni strettamente psichiatriche (es. psicosi, deliri, depressioni endogene, etc.), mediche (es. malattie) o ambientali (es. difficoltà economiche, disturbi causati da cataclismi naturali), tutte le difficoltà che abbiamo rimandano alla qualità delle nostre relazioni.

In alcuni casi ciò appare evidente: un amore di coppia o un’amicizia che finisce, un ritiro sociale dettato da esperienze sociali estremamente negative, l’abbandono di una attività amata a causa dei cattivi rapporti con gli altri, sono tutte situazioni in cui il “colpevole”, cioè l’altro, è evidente sin dall’inizio. Ma a pensarci bene anche molte altre vicende diventano problematiche a causa o comunque con il concorso di relazioni disfunzionali o assenti: si pensi alla morte di un proprio caro seguito dal successivo silenzio assordante degli altri famigliari, quella situazione nemmeno rara in cui dopo non se ne parla più, se non superficialmente. Oppure si pensi a quanto sarebbe diverso se, dopo un rovescio personale (la perdita del lavoro, una bocciatura a scuola, un amore finito), si avesse con chi parlarne, magari una rete di persone, di amici che ti aiutano a rialzarti e ti accompagnano di nuovo verso la vita. Eppure di queste reti ce ne sono poche in giro e non ne hanno certo quanti vanno dallo psicologo. Il fatto è che siamo animali sociali piuttosto imbranati, cioè perlopiù incapaci di cogliere la preziosità dell’altro, di ritenerlo una risorsa e non un rivale o uno che prima o poi ti pugnalerà alle spalle. In terapia di queste storie ne arrivano tante, di amicizie clamorosamente finite, dell’impossibilità (decisione) di fidarsi ancora di qualcuno, della chiusura a seguito di delusioni inaspettate, eppure, dopo 200mila anni di homo sapiens, dovremmo avere gli anticorpi per queste situazioni e riuscire a gestirle non alzando barricate ma aprendo ancor più le porte dei nostri castelli. Ma, come detto, non siamo molto ferrati in materia, tant’è che di problemi di natura “sociale” sono pieni gli studi degli psicoterapeuti: dissapori tra coniugi e fidanzati, liti tra genitori e figli, battaglie legali tra fratelli per misere eredità, suocere contro nuore, ex amici contro ex amici, colpi alla schiena tra colleghi e chi più ne ha più ne metta. No, non siamo per nulla tra gli animali sociali migliori.

Quel che accade poi nei gruppi è particolarmente interessante. Sappiamo da tempo che i rapporti gruppali si giocano attorno a tre principali modalità relazionali: attrazione, rifiuto, indifferenza. A dire, una persona può piacermi, può non piacermi, o può risultarmi indifferente. Lasciamo perdere le sfumature di grigio che ci sono tra queste tre possibilità e limitiamoci a immaginare l’incrocio di atteggiamenti che, in un ipotetico gruppo di 10 persone, possono venirsi a creare: visto che ognuno dei dieci vive una dinamica di attrazione o rifiuto o indifferenza verso gli altri nove, arriviamo al numero di 90 qualità di sentimenti all’interno del gruppo, alcuni dei quali saranno reciproci (A “ama” B e viceversa) e altri per nulla (A “ama” B, mentre B “odia” A). Analizzando l’intera dinamica emergono appunto gli status sociali, cioè la particolare posizione occupata da ciascuno in seno al gruppo, e quindi soggetti popolari, gregari, controversi, rifiutati, ignorati. Credo sia evidente che una persona che è rifiutata o ignorata dagli altri (presunti amici, colleghi, compagni di classe o di università, membri della stessa squadra) non se la passa bene e può sviluppare tutta una serie di difficoltà tra cui quella del ritiro sociale, fatto di chiusura, isolamento, assenza di amicizie, abbandono delle attività sociali, disistima, tristezza fino alla depressione. Considerando che, come detto, siamo animali sociali, se è proprio la socialità a difettare non si può che finire male.

Quanto ai rapporti amorosi, le coppie di oggi hanno problemi assai simili a quelli di un tempo, con la differenza che i social hanno complicato tutto. Mai come adesso, infatti, sono possibili contatti clandestini con terze persone, e mai come adesso è facile essere scoperti. Ovviamente non è questa la cattiva notizia, cioè l’essere scoperti, ma quanto sia diventato difficile restare insieme condividendo un progetto di vita. Si dice che negli anni le cose cambiano, mutano le circostanze e le persone ed è quindi normale ritrovarsi a un certo punto lontani; ma non sono del tutto d’accordo: si cambia, certo, ma bisognerebbe imparare a farlo insieme, a non perdersi di vista, a guardarsi le spalle. Bisognerebbe continuare a fare squadra, perché quando c’è per esempio un tradimento (o qualsiasi altro grave problema), non è il traditore l’unico colpevole ed è la coppia ad aver perso, a non avercela fatta, a essere caduta. Ecco dunque che quando un partner tradito mi racconta del torto subìto, mi trovo nella scomoda posizione di chi deve chiedere: “Ma tu dov’eri?”, volendo dire “Come t’è sfuggito che lui/lei si stesse allontanando, quand’è che avete smesso di parlare, da quanto non state più veramente insieme?”. Il lavoro con le coppie è bello ma al tempo stesso faticosissimo, perché c’è un primo momento in cui resti a guardare due persone che si scambiano accuse senza minimamente mettersi in discussione, e capisci che c’è molta strada da fare.

Non che l’idea dell’amore “per sempre” sia la migliore: talvolta occorre che certe relazioni tossiche vadano lasciate andare. Ma quante sono quelle finite male senza nemmeno averci provato? E quanto dipende anzitutto da noi, prima ancora che dal partner, farle funzionare?

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